Come avranno certamente intuito dal titolo i miei cari venticinque lettori di manzoniana memoria (oggi, con i social, spero ce ne sia qualcuno in più), questa è un’altra bruttissima storia, anzi una storiaccia da film dell’orrore, con l’aggravante che si tratta di una storia di malasanità e come sia datata ben oltre gli anni Cinquanta, decennio a cui risalgono le altre nostre storie.
Questa storiaccia comincia, dunque, da una scena madre da film horror, in cui si immagina di entrare in un soggiorno casalingo per partecipare ad una veglia funebre. Una volta dentro, si scopre che gli occhi dei partecipanti più che tristi e piangenti per l’accaduto, sembrano essere sbarrati per lo spavento, nonché fissi verso il centro della stanza, dove l’occhio, alla luce di quattro candele accese su quattro candelabri posti alle quattro estremità, vede una bara sagomata, in legno chiaro, faggio o frassino, montata su un catafalco bordato di raso viola con croci ed orli dorati, che accoglie il corpo slanciato di una giovane e bella donna di nome Anna, dai lunghi capelli neri, gli occhioni chiari e dolci nascosti dalle palpebre chiuse della morte. La donna era morta in stato interessante quasi al nono mese, ma, per un orrendo scherzo del destino (o, forse, più probabilmente, per l’incapacità dei medici che l’avevano avuta in cura), i due gemellini che portava in grembo erano ancora vivi, rimanendo così prigionieri di quell’utero da cui tentavano inutilmente di uscire, facendo così oscillare il pancione della loro povera madre, pancione che tra poco si sarebbe trasformato nel loro sarcofago, non appena la bara sarebbe scesa nella tomba. Ciascuno degli intervenuti a quella veglia avrebbe voluto quindi trasformarsi in chirurgo per strappare i gemellini a quel sarcofago, aprendo l’addome della morta per tirarli fuori.
Ma se l’agonia dei gemellini non durò in fondo che poche ore, lo stesso non si può dire per il loro disgraziatissimo padre, sia rispetto al felice antefatto del fidanzamento e del matrimonio con la moglie, sia, soprattutto, rispetto agli avvenimenti successivi, che si rivelarono, più che altro, dolorosissime tappe di una specie di viaggio all’inferno.
Ma andiamo con ordine. Quando Anna e il suo ragazzo, che chiameremo Marco (come dunque i protagonisti di una celebre canzone di Lucio Dalla) si conobbero, i due erano bravi ragazzi, rampolli della classe artigianale paesana della fine degli anni Cinquanta, quindi nel pieno “miracolo economico”, le cui botteghe familiari di sartoria e panetteria erano praticamente una di fronte all’altra, cosicché i due potevano tranquillamente scambiare quattro chiacchiere dai rispettivi marciapiedi e poi, una volta ottenuta l’autorizzazione a frequentarsi maggiormente, sedendo entrambi sui gradini delle rispettive vetrine.
Da lì al fidanzamento e poi al matrimonio i passi furono relativamente brevi, perché le due famiglie non trovarono particolari impedimenti alla loro unione, conoscendosi e rispettandosi l’una con l’altra, considerato anche che, se si è già accennato alla bellezza di Anna, sia pure fissata nell’istantanea della morte, pure Marco non era da meno: era un bel ragazzo alto, dai capelli castani chiari, quasi biondi, e gli occhi cerulei, ossia che cambiavano tra il verde, l’azzurro e il grigio, secondo la luce circostante. Insomma, dopo un brevissimo fidanzamento i due si sposarono nella primavera del ’60, andando ad abitare in una grande e bella casa del centro, appena realizzata dopo un risanamento di quest’ultimo voluto dall’Amministrazione comunale del tempo.
Rimasti da soli nella loro nuova casa, che cominciava ad avere tutti gli elettrodomestici reclamizzati dalla pubblicità di quegli anni attraverso la radio e il nuovo arrivato televisore, i due piccioncini poterono esprimere in tutto e per tutto il loro amore, tanto che, appena dopo, Anna rimase subito incinta, anche se con la gravidanza cominciarono i problemi che l’avrebbero portata alla morte.
Sviluppò, infatti, il cosiddetto “diabete gravidico”, oggi controllabilissimo con i farmaci, ma allora molto pericoloso, che finì, forse, con lo sfociare nel relativo coma diabetico, senza che, però i medici si decidessero, alle prime avvisaglie, a praticare quel benedetto parto cesareo che avrebbe consentito loro probabilmente di salvare i due gemellini (anche in assenza della nuovissima ecografia prenatale, la cui mancata immediata diffusione in Italia causò tanti ed irreparabili danni a moltissimi neonati, compresa la sottoscritta).
Successivamente, Marco, non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare il lutto per aver perso, e in un modo così orribile moglie e figli, che subito i familiari (soprattutto la madre, titolare della panetteria) cominciarono ad invitarlo in modo sempre più pressante, a risposarsi, fatto che alla fine sfociò in una vera e propria imposizione, con la motivazione che, in caso di mancanza, per impedimento temporaneo o permanente a causa di malattia o peggio, della titolare, gli sarebbe mancato l’aiuto necessario a portare avanti l’impresa di famiglia. Come si vede, una motivazione senza dubbio legittima, ma portata avanti in tempi e modi sbagliatissimi, visto che, dopo appena un anno e mezzo dal fattaccio, Marco, non solo fu costretto a risposarsi ma dovette anche subire la scelta della nuova sposa, poiché quest’ultima venne fatta dagli stessi familiari in accordo con quelli della prescelta, la quale, per altro non poté neanche dire la sua rispetto a tale scelta.
Già, perché anche la scelta di sposare Marco era stata per Nannina (la chiameremo così) un’imposizione, visto che lei avrebbe voluto tanto sposare un ragazzo che però era già emigrato in Canada. Cosicché, quando il padre, un tipo molto irascibile, beone ed attaccabrighe (tanto che si racconta come si scolasse bottiglie intere di liquore come digestivo e che avesse un fucile da caccia appeso dietro la porta di casa) le disse che avrebbe dovuto sposare Marco (era tornato appositamente dall’America, anche lui emigrò in Canada, qualche decennio prima, insieme al fratello di Nannina, per “sistemare” la figlia dopo che era stato avvertito della proposta a cura di chi aveva fatto da “sensale di matrimonio”, ovvero agente matrimoniale tra le due famiglie), Nannina aveva provato anche ribellarsi, tirando l’anello di fidanzamento addosso al padre, ma forse, in quell’occasione, dovette subire tante di quelle violenze fisiche, da preferire, alla fine, il matrimonio forzato ad una morte certa e violenta.
Con queste premesse, avrete capito che la vita matrimoniale di Marco e Nannina cominciava nel peggiore dei modi, a cominciare dalla celebrazione stessa delle nozze, avvenuta nella sacrestia di un santuario del circondario, in presenza solo dei familiari più stretti, dei testimoni e di altri pochissimi intervenuti, con un pranzo di nozze rimediato a malapena. Una vita, insomma, che più di aggiungere felicità, trasformava la quotidianità in un vero e proprio incubo, con continue ripicche tra gli sposi, con lei che si rifiutava di cucinare per lui, mettendolo così a scatolette ed invece lui che invitava a pranzo l’ex suocero, perché gli era molto affezionato, tanto da mettere decisamente e categoricamente il suo nome al primogenito che sarebbe venuto anni dopo. Le ripicche continue e reciproche causarono anche la volontà di allontanamento di Marco da quella vita ormai diventata troppo stressante e negativa, per cercare in qualche modo conforto nel gioco (si racconta che una volta abbia giocato a carte per tutta la notte con un amico, tanto da dimenticare il pane da impastare ed infornare, oppure che approfittasse di ogni occasione per bere fino a diventare brillo), anche se tutto ciò non raggiunse mai limiti patologici.
Le conseguenze di questa unione così male assortita finirono con il coinvolgere anche i figli della coppia, i quali per altro, forse, vennero al mondo solo per forte volontà divina, ma anche perché, da un lato, inconsciamente, Marco voleva ricavare almeno qualche soddisfazione sessuale da quel matrimonio e dall’altro, Nannina avere almeno un figlio a cui pensare, invece di consumarsi inutilmente in quella vita forzata, cosicché alla fine gli innocenti pargoletti furono due. Al primogenito, quello a cui toccò decisamente e categoricamente il nome del l’ex suocero, toccò, però, anche la “vendetta “di Nannina (che peraltro mise al secondo figlio il nome di suo padre, nonostante i torti da lui subiti, rimettendo in tal modo la situazione in parità). Nannina, inoltre, con la scusa di non poter dargli tutte le attenzioni necessarie, poiché aveva il forno e l’altro figlio piccolo a cui badare, lo spedì dai nonni materni in campagna fino all’età scolare (i quali nonni, c’era anche il “Canadese” tornato in pensione, forse, non lo trattarono proprio in guanti bianchi), con il risultato che questi non legò mai abbastanza con padre e fratello, i quali finirono col sembragli più che altro due estranei e non due familiari così stretti da amare e coccolare.
Le ripicche reciproche e le piccole liti quotidiane continuarono per tutta la durata della vita matrimoniale, talvolta sfiorando il ridicolo, quasi si fosse in un telefilm leggero anni Ottanta come Casa Vianello: in particolare quando, ad ogni comportamento di lui non condiviso dalla “mogliettina”, lei rispondeva ad alta voce nel nostro dialetto: «Pinz’a muré, ca ce sta chi te porte!!!», cioè, in pratica, augurando la morte al coniuge.
Poi, però, fu la stessa Nannina, per un’atroce beffa del destino, o per una sorta di nemesi storica, o ancora per un’appropriata lezioncina della Provvidenza, a vedersi ritorcere contro l’augurio di cui sopra, cioè ad essere portata dove mai avrebbe voluto, ossia al cimitero, rimettendo, così, all’indietro, l’orologio della vita di Marco, fino a prima del matrimonio forzato.
Iniziarono quindi per lui alcuni anni di vecchiaia da trascorrere in ritrovata serenità e tranquillità, circondato dai due figli, con il primogenito che recuperò in pieno il rapporto con il padre, ma anche, in parte, con il fratello, nonostante avesse il nome (non il carattere) del suocero cattivo, dalle benvolute nuore e dagli adorati nipotini che finalmente poteva liberamente coccolare e viziare.
E dopo questi ultimi, poté così lasciare questo mondo in pace con gli altri e, soprattutto, con se stesso e la sua difficilissima vita, per trovare quella quiete eterna che da queste parti aveva solo potuto assaggiare.